Comportamento antisociale nel minore e carriera criminale
Fondazione Guglielmo Gulotta
di Psicologia Forense e della Comunicazione - Onlus
Ambra Rossi
Laureata in Psicologia
Tutor di riferimento
Sara Codognotto
ABSTRACT
Il lavoro che segue si propone di analizzare il fenomeno della delinquenza minorile, da considerarsi
non tanto quale caratteristica individuale statica e definita, bensì nella sua veste di processo
dinamico che evolve progressivamente in una carriera deviante.
Nello specifico, particolare attenzione sarà rivolta ai fattori di rischio di natura psicologica e
psicopatologica coinvolti in questo articolato percorso che vede i precoci problemi della condotta
infantile progredire e persistere nell’adolescenza e nell’età adulta.
INTRODUZIONE
La personalità del giovane che intraprende una carriera criminale non può essere spiegata come una
realtà statica quanto, piuttosto, come una struttura che si trasforma continuamente, sotto la duplice
spinta dello sviluppo individuale e delle influenze ambientali.
Gli aspetti dinamici ed evolutivi della personalità del giovane delinquente possono essere descritti
attraverso il concetto di identità personale, mettendo in evidenza come l’adolescenza sia il periodo
in cui le crisi e i dubbi relativi all’identità sono maggiormente accentuati.
Innanzitutto è necessario sottolineare come l’adolescenza sia socialmente determinata, e quindi
come tale fase di sviluppo si presenti in modo eterogeneo nelle differenti culture. All’interno di
quest’ultime, infatti, esistono profonde differenze nel livello di difficoltà con il quale avviene la
transizione dall’infanzia all’età adulta (Bandini et al. 1987).
A tale proposito Mead (1964), analizzando le ricerche sulle popolazioni delle isole Samoa e della
Nuova Guinea, ha evidenziato come in alcune società l’adolescente entri nella sua nuova
condizione, fisica e sociale, privo di qualsiasi disturbo emotivo; i compiti da affrontare sono
determinati dalla tradizione, non vi è possibilità di scelta, la posizione da occupare è chiara,
definita, non vi sono spazi per i dubbi. Le ricerche di Mead mostrano quindi come il carattere di
incertezza e di conflitto interiore che caratterizza l’adolescenza non debba essere considerato come
un fatto normativo, ma possa invece essere spiegato come conseguenza e risultato di una
determinata condizione culturale.
Nella nostra società l’adolescenza si presenta come un periodo denso di tensioni e di conflitti in cui
si affronta la cosiddetta “crisi di identità”, la quale, a sua volta, può favorire l’emergere di un
comportamento deviante.
In merito, Canestrari e Battacchi (1970), evidenziano come la crisi di identità dell’adolescente
rappresenti parallelamente una crisi di identità corporea (maturazione puberale), di identità sessuale
(riemergere dei conflitti edipici), di identità professionale (posticipare l’esercizio di una professione
al fine di proseguire la carriera scolastica; oppure rinunciare a professioni di categoria superiore per
una identità professionale immediata). I cambiamenti e le trasformazioni che si verificano in questo
periodo incidono fortemente sulla formazione dell’identità dell’io, vale a dire del sentimento di
essere sempre uguali a se stessi nonostante i cambiamenti esterni.
In questa fase le identificazioni con i coetanei sono molto importanti poiché il gruppo dei pari
assume un ruolo preminente nell’influenzare il punto di vista dell’adolescente, gli ideali in cui
credere, i suoi modelli di comportamento ed i ruoli da ricoprire all’interno della società.
Erikson (1974), a tale riguardo, spiega come l’adolescenza rappresenti un periodo di “naturale
sradicamento”, laddove il soggetto abbandona la “salda presa dell’infanzia” per cercare di afferrare
“un solido appiglio nell’età adulta”, creando un ponte tra passato e futuro, e combinando vecchi e
nuovi elementi di identificazione. Emerge dunque come l’acquisizione da parte dell’adolescente di
una identità personale dipenda fortemente dalla struttura sociale e dall’ambiente nel quale egli vive
(Bandini et al. 1987). L’appartenenza ad una certa classe sociale e ad un certo gruppo, la posizione
occupata all’interno di un sistema di opportunità sociali, l’origine etnica, ecc. condizionano in modo
pregnante la formazione e l’acquisizione dell’identità da parte del giovane.
All’interno di tale concezione è bene tenere presente come la famiglia sia il principale strumento
che la società abbia a disposizione per fare interiorizzare un determinato sistema di ruoli e di
modelli di comportamento. Come spiega Cohen (1963), la famiglia influenza profondamente la
tipologia di persone e di situazioni che l’adolescente incontrerà al di fuori: proprio tali esperienze
determineranno il quadro di riferimento mediante il quale il giovane percepirà, interpreterà e
valuterà il mondo nel quale vive. Nell’adolescenza la famiglia continua ad avere una grande
influenza nelle scelte del giovane, attraverso il rafforzamento, la critica o il rifiuto delle sue idee,
sentimenti, concezione della vita e l’immagine che ha di sé, nonostante questo sia un periodo in cui
si verifica un notevole ampliamento nel numero di interazioni sociali e di figure significative
(Bandini et al. 1987).
Nell’adolescenza l’interazione tra i genitori e i figli assume un significato particolare; è questo
infatti il periodo in cui i figli affrontano nuovamente molte battaglie già intraprese negli anni
precedenti, giungendo anche ad attribuire il ruolo di nemici a persone che in realtà vogliono loro
solo del bene (Erikson, 1974 ).
In merito a ciò, Winnicott (1970) sostiene come i genitori debbano affrontare tali battaglie e
accettarle come sfide tipiche della loro vita adulta, evitando di pretendere di mettersi a “curare” e
modificare ciò che è fondamentalmente sano.
Gli adolescenti, a loro volta, hanno il compito di opporsi lealmente agli adulti, per sfidare i loro
obiettivi, i loro giudizi, le loro decisioni e le loro azioni; il figlio si ribella al padre, ma tale
ribellione contribuisce alla maturità del padre stesso e al suo arricchimento personale.
Così come il figlio, anche il padre deve essere leale, dimostrando sempre e continuamente agli
occhi della gioventù l’autorità e la maggiore capacità di comprendere la realtà tipici della
generazione più adulta (Ackerman, 1968).
Possiamo dedurre dunque, come la messa in atto di comportamenti devianti in fase adolescenziale
possa essere considerata normativa e fisiologica, e rappresenti una tappa “di sviluppo normale” di
ciascun individuo.
Non è possibile pertanto pensare ad un collegamento diretto e lineare tra presenza di comportamenti
devianti in adolescenza e sviluppo di un comportamento antisociale in età adulta.
Junger Tas (1994) ha chiaramente mostrato come il comportamento antisociale da giovani sia un
fenomeno normativo; l’assoluta maggioranza di adolescenti commette un certo numero di
trasgressioni minori, mentre solo un gruppo molto più piccolo commette un vasto numero di
trasgressioni più gravi.
Nonostante ciò, ridurre la delinquenza giovanile unicamente ad un fenomeno di natura
adolescenziale (ovvero come a qualcosa di puramente fisiologico e normativo) conduce ad una
visione distorta e riduttiva del problema. Questo punto di vista, infatti, non deve incoraggiare ad una
politica del “non intervento”; basti a tale proposito pensare alle vittime coinvolte in atti devianti: chi
subisce un reato non sente meno dolore per il danno che ne consegue solo per il fatto che ad averlo
causato è un soggetto di minore età (Zara, 2006).
È importante dunque comprendere quali fattori siano da considerarsi responsabili dell’esordio e
successiva persistenza di un comportamento antisociale; è a tale scopo che, grazie anche all’analisi
di alcune recenti ricerche, approfondirò di seguito i principali fattori di rischio implicati in questo
delicato processo.
Iniziamo tale percorso di approfondimento cercando di rispondere ad un primo importante quesito:
cosa si intende con il termine “adolescente antisociale”?
GLI ADOLESCENTI ANTISOCIALI
Da quanto presentato sopra, emerge come la presenza di un singolo comportamento trasgressivo
non sia sufficiente ad indicare una tendenza delinquenziale.
Nello specifico, gli adolescenti antisociali si presentano come ragazzi che manifestano più frequenti
e più gravi comportamenti trasgressivi, laddove tale comportamento è indicativo di una più ampia
difficoltà di inserimento sociale e di sviluppo di una identità adulta (Maggiolini, 2002).
Esistono molteplici percorsi che possono condurre allo sviluppo di un comportamento antisociale
(Loeber et al., 1998).
In primo luogo vi sono adolescenti trasgressivi che già in età prescolare mostrano un’accentuata
difficoltà nel rispettare le regole, a casa come a scuola, in concomitanza alla presenza di un
comportamento iperattivo. Gli adolescenti, infatti, che hanno presentato gravi problemi di
comportamento da bambini spesso sviluppano anche comportamenti violenti (Loeber et al., 1998).
In secondo luogo, vi sono ragazzi che iniziano a presentare comportamenti antisociali nella tarda
infanzia o all’inizio dell’adolescenza; in questo caso, non si ha a che fare con soggetti
particolarmente aggressivi e si possono riscontrare successive trasgressioni di minore gravità,
realizzate prevalentemente in gruppo (Loeber et al., 1998).
Infine, una terza strada che può condurre allo sviluppo dell’antisocialità, è costituita quasi
esclusivamente dall’abuso di sostanze, che normalmente ha inizio nella media adolescenza,
generalmente non associata ad una violazione sistematica delle regole (Loeber et al., 1998).
Emerge dunque come un fattore centrale, nell’evolversi di una condotta antisociale, sia
rappresentato dall’età di insorgenza dei problemi di comportamento.
I bambini che manifestano precocemente problemi di comportamento sembrano presentare infatti
non solo un basso livello intellettivo e difficoltà di attenzione, ma appartengono spesso anche a
nuclei familiari maggiormente problematici, con elevati conflitti interni e stili educativi inadeguati,
in cui i caregiver (figure di accudimento primarie) soffrono a loro volta di una qualche forma di
psicopatologia; in questi bambini, inoltre, è più probabile trovare correlati neuropsicologici al
comportamento trasgressivo (Fonagy, Target, 2001).
La successione con cui si sviluppano i problemi di comportamento dall’infanzia all’adolescenza è
generalmente la seguente: in fase iniziale si manifestano i problemi di attenzione, i quali, a loro
volta, precedono l’emergere di comportamenti aggressivi e/o ritirati e la presenza di umore
depresso; in adolescenza si prosegue con l’uso di sostanze e un comportamento sessuale precoce,
per giungere poi al comportamento antisociale vero e proprio e all’emergere della delinquenza
(Loeber et al., 1998).
Si può affermare dunque, come i preadolescenti coinvolti in gravi comportamenti antisociali
tendano a presentare un’infanzia caratterizzata da iperattività, oppositività e profonde difficoltà a
creare legami con i coetanei. Già in età infantile, se comparati ai loro pari, questi bambini mostrano
difficoltà di apprendimento (ad esempio nella lettura), e una tendenza ad avere deflessioni del tono
dell’umore accompagnate alla percezione di sentirsi abbattuti. Quando successivamente diventano
adolescenti, essi tendono ad essere molto impulsivi e a ricercare esperienze nuove ed eccitanti.
Se tali caratteristiche continuano a persistere nella tarda adolescenza e nella giovinezza spesso
evolvono nell’alcolismo, in irregolarità al lavoro, e in difficoltà di relazione nel contesto familiare
ed amicale (Rutter et al., 1998).
Gli adolescenti antisociali diventano così adulti che tenderanno a reagire alle frustrazioni, agli
ostacoli, alle prove e alle difficoltà della vita attraverso la violenza, anche se non perseverano
necessariamente in una condotta di tipo delinquenziale (Rutter et al., 1998).
Emerge dunque come esista una forte continuità del comportamento antisociale dall’infanzia all’età
adulta; per quegli individui che commettono molti reati ad una specifica età esiste, infatti, un’alta
probabilità che essi continuino a commetterne molti altri anche in un diverso periodo della loro vita.
Il concetto di “onset” o di “età di iniziazione” è dunque di grande importanza nello studio del
comportamento criminale. Analizzare il momento d’esordio antisociale comporta l’affrontare il
problema alle origini, in quanto in base all’età dell’onset, le variabili di rischio sono differenziate,
così come i futuri sviluppi criminali. L’iniziazione criminale dipende, infatti, dal grado di influenza
e di impatto che i fattori di rischio hanno su un soggetto vulnerabile (Zara, 2006).
Ritengo dunque ora opportuno comprendere come siano classificati i problemi trasgressivi dei
bambini, e come, interagendo con specifici fattori di rischio, possano trasformarsi in un vero e
proprio disturbo antisociale.
CLASSIFICAZIONE DEI COMPORTAMENTI TRASGRESSIVI
Nel manuale diagnostico e statistico di classificazione dei disturbi mentali (Dsm - IV) i problemi
trasgressivi dei bambini che si presentano frequentemente correlati al comportamento antisociale
adolescenziale, sono rappresentati da tre tipi di disturbo: il disturbo della condotta; il disturbo
oppositivo; il disturbo iperattivo (Maggiolini, 2002).
Il Disturbo della Condotta: caratteristica principale di tale disturbo è la presenza di un
comportamento ripetitivo e persistente, associato ad una costante violazione dei diritti degli altri
o delle norme sociali appropriate per l’età adulta.
Tali comportamenti si manifestano in molteplici e differenti contesti (a casa, a scuola, in
comunità) dove le regole vengono puntualmente infrante (Maggiolini, 2002).
I comportamenti specifici possono essere rappresentati da una condotta aggressiva che provoca
o minaccia danni fisici ad altre persone o ad animali; una condotta non aggressiva che determina
perdita o danneggiamento della proprietà; frode; furto e gravi violazioni di regole.
Tali comportamenti devono presentarsi con una modalità persistente osservabile per un periodo
di almeno dodici mesi, e devono causare una compromissione significativa del funzionamento
sociale, scolastico o lavorativo del soggetto.
Il Dsm - IV prevede inoltre l’esistenza di due sottotipi in base al periodo di esordio (nella
fanciullezza o nell’adolescenza), dato che un esordio precoce è correlato solitamente ad una
prognosi maggiormente negativa.
La presenza di comportamenti aggressivi e antisociali prima dei dieci anni viene osservata con
maggiore frequenza nei maschi; essi commettono numerose aggressioni fisiche e presentano
rapporti disturbati con i pari. Tali soggetti andranno incontro con più frequenza alla possibilità
di sviluppare un disturbo antisociale di personalità (Ammanniti, 2001).
Gli individui con disturbo della condotta possono presentare scarsa empatia e attenzione per i
sentimenti, i desideri e i bisogni altrui; spesso travisano le intenzioni degli altri, interpretandole
come più ostili di quanto effettivamente non siano, reagendo, di conseguenza, con
un’aggressività ritenuta ragionevole e giustificata. Bassa tolleranza alle frustrazioni, irritabilità,
esplosioni di rabbia sono caratteristiche che si presentano con un’alta frequenza all’interno di
tale disturbo. Esso è spesso associato ad un inizio precoce dell’attività sessuale, del bere, del
fumare, dell’uso di sostanze illecite, e a comportamenti rischiosi; può essere associato, inoltre, a
scarsa intelligenza (con un livello sotto la media) e ad apprendimento scolastico inferiore
rispetto al livello previsto in base all’età e all’intelligenza.
Differenti variabili possono condurre allo sviluppo del disturbo della condotta: il rifiuto da parte
dei genitori, un ambiente educativo rigido caratterizzato da norme contraddittorie,
maltrattamento fisico o sessuale, cambiamenti ripetuti delle figure primarie di accudimento, ma
anche un temperamento difficile, l’inserimento precoce all’interno di istituzioni, l’associazione
con gruppi delinquenziali e la presenza di psicopatologia familiare (Maggiolini, 2002).
I comportamenti meno gravi si manifestano precocemente, ad esempio attraverso piccoli furti in
casa, menzogne, ecc., mentre quelli più fortemente delinquenziali tendono a comparire in
seguito.
Come già affermato sopra, il disturbo è maggiormente diffuso nei maschi, attraverso modalità
quali: aggressività fisica, furti, vandalismi e problemi di disciplina scolastica. Le femmine,
invece, tendono a manifestare il disturbo attraverso menzogne, assenze da scuola, fughe, uso di
sostanze e prostituzione.
Nella maggioranza dei soggetti il disturbo sembra presentare una remissività con l’età adulta,
anche se una parte significativa continua a presentare comportamenti che soddisfano i criteri per
il disturbo antisociale di personalità (Maggiolini, 2002).
Il Disturbo Oppositivo Provocatorio: un secondo tipo di manifestazione di aggressività
avviene attraverso una modalità ricorrente di comportamento negativistico, provocatorio,
disobbediente ed ostile nei confronti delle figure dotate di autorità, anche se ciò non si esprime
necessariamente in modo violento o aggressivo.
Tale comportamento è frequentemente accompagnato da perdita di controllo, litigi con gli
adulti, rifiuto di rispettare le regole o le richieste degli adulti stessi, accuse rivolte ad altri per i
propri comportamenti scorretti, manifestazioni di collera ed atteggiamenti vendicativi.
L’oppositività può anche assumere la forma di una persistente caparbietà, scarsa disponibilità al
compromesso, alla resa o alla negoziazione con gli adulti o con i coetanei; può anche includere
la messa alla prova dei limiti, di solito ignorando gli ordini, litigando e non accettando i
rimproveri per i misfatti. L’ostilità è espressa soprattutto tramite aggressioni verbali, di solito
senza aggressioni fisiche, come invece accade nel disturbo della condotta.
Le manifestazioni del disturbo avvengono quasi sempre nell’ambiente familiare, ma possono
manifestarsi anche a scuola o nella comunità.
Durante l’età scolare i soggetti possono presentare scarsa autostima, umore labile, bassa
tolleranza alla frustrazione, precoce utilizzo di alcol, fumo e sostanze illecite; di conseguenza
sono spesso frequenti i conflitti con genitori, insegnanti e coetanei.
La presenza del disturbo oppositivo provocatorio è riscontrata soprattutto in quelle famiglie in
cui l’accudimento del bambino è caratterizzato da un susseguirsi di caregivers diversi, o in cui le
pratiche e le regole educative sono rigide, incoerenti e trascuranti (Maggiolini, 2002).
I sintomi oppositivi aumentano con l’età. Il disturbo è osservato soprattutto nei soggetti di sesso
maschile e in particolare tra coloro che in età prescolare hanno manifestato temperamenti
problematici, con alta reattività e difficoltà ad essere tranquillizzati, oppure iperattività motoria.
In un numero significativo di casi, il disturbo oppositivo provocatorio precede il disturbo della
condotta (Ammanniti, 2001).
Il Disturbo da Deficit d’Attenzione e Iperattività: un’ulteriore modalità attraverso cui viene
manifestata la trasgressività riguarda non tanto comportamenti impulsivi, aggressivi o
provocatori, quanto piuttosto comportamenti caratterizzati da irrequietezza e difficoltà a seguire
anche semplici regole comportamentali.
Questo disturbo si manifesta con una modalità di disattenzione e/o iperattività-impulsività più
frequente e più grave di quanto si osservi in soggetti con un livello di sviluppo simile, la quale
va ad interferire col funzionamento scolastico, sociale o lavorativo (Maggiolini, 2002).
La classificazione del DSM - IV suddivide il disturbo in tre quadri clinici: tipo con disattenzione
predominante, con prevalenza di sintomi di disattenzione; tipo con iperattività/impulsività
predominante, con prevalenza di sintomi di iperattività/impulsività; tipo combinato, con
prevalenza di entrambi i tipi di sintomi.
La tipologia che presenta prevalentemente la “disattenzione” è determinata in base alla
frequente presenza di sei o più comportamenti quali: non riuscire a prestare attenzione ai
particolari o commettere errori di distrazione nei compiti scolastici, sul lavoro, o in altre attività;
difficoltà a mantenere l’attenzione sui compiti o sulle attività di gioco; non ascoltare; non
seguire le istruzioni e non portare a termine i compiti scolastici o i doveri sul posto di lavoro;
avere difficoltà ad organizzarsi nei compiti e nelle attività; provare avversione, o essere riluttanti
ad impegnarsi in compiti che richiedono uno sforzo mentale prolungato; perdere gli oggetti
necessari per i compiti o le attività da svolgere; essere sbadati nelle attività quotidiane.
Per poter parlare di prevalenza di “iperattività” e “impulsività” è necessario che siano presenti
almeno sei comportamenti che si manifestano con una certa frequenza. Questi comportamenti
sono: muovere mani o piedi con irrequietezza; dimenarsi sulla sedia; lasciare il proprio posto a
sedere in classe o in altre situazioni in cui è opportuno restare seduti; scorrazzare e saltare
dovunque in modo eccessivo in situazioni in cui tale comportamento non è adeguato (negli
adolescenti o negli adulti ciò può limitarsi a sentimenti soggettivi di irrequietezza); non riuscire
a giocare o a dedicarsi ai divertimenti in modo tranquillo; essere spesso “sotto pressione” o
agire come se si fosse “motorizzati”; parlare troppo e fuori contesto; dare le risposte prima che
le domande siano state completate; difficoltà ad attendere il proprio turno; interrompere gli altri
o essere invadenti nei loro confronti (per esempio intromettersi nelle conversazioni o nei giochi)
(Ammanniti, 2001).
Il disturbo si presenta con maggiore frequenza nei soggetti di sesso maschile; i sintomi, nella
maggior parte dei casi, sembrano attenuarsi nella tarda adolescenza e nell’età adulta
(Maggiolini, 2002).
Partendo da tale analisi descrittiva, è interessante notare come questi tre disturbi infantili del
comportamento siano fortemente interrelati tra loro.
Molti bambini con disturbo della condotta, infatti, presentano anche problemi di attenzione; mentre
i bambini oppositivi mostrano spesso anche comportamenti caratterizzati da aggressività e
trasgressività.
Inoltre, sia il disturbo della condotta che quello oppositivo sono associati, se pur con gradi
differenti, a problemi familiari quali scarsa sorveglianza, genitori a loro volta devianti, ecc.
Invece, i bambini che presentano il disturbo della condotta associato al disturbo da deficit
d’attenzione sembrano sviluppare precocemente problemi di comportamento e tendono ad essere
più aggressivi: è proprio in questo gruppo che si collocano i veri precursori dei gravi problemi di
antisocialità adolescenziale (Maggiolini, 2002).
E’ dunque il momento di comprendere quali fattori di rischio siano implicati nel processo che
conduce la precoce tendenza al comportamento trasgressivo e all’antisocialità a trasformarsi in un
vero e proprio disturbo antisociale.
FATTORI DI RISCHIO
Fattori di differente natura (individuali, familiari, scolastici, relazionali, sociali) sono implicati nello
sviluppo di un disturbo antisociale in età adulta. All’interno di questo lavoro mi soffermerò
principalmente sul ruolo giocato dal fattore “età di insorgenza” e sugli aspetti psicologici e
psicopatologici alla base delle problematiche antisociali.
A tale fine, vorrei iniziare il corrente paragrafo con una ricerca che ritengo significativa: il Pittsburg
Youth Study di Loeber (Loeber et al., 1998).
Si tratta di uno studio longitudinale, molto importante nell’ambito dell’antisocialità minorile, che ha
avuto come obiettivo quello di esaminare i fattori implicati nell’insorgere della delinquenza.
A tale fine sono stati creati tre gruppi di bambini, studiati in parallelo. Il primo gruppo è stato
osservato all’età di 7 anni, il secondo all’età di 10 anni, e il terzo all’età di 13. Al follow up i
soggetti appartenenti ai tre gruppi avevano rispettivamente 8, 11 e 14 anni. I partecipanti allo studio
erano tutti maschi.
Lo studio ha coinvolto sia soggetti a rischio, sia bambini non a rischio, come gruppo di controllo.
Il rischio venne definito in base alla presenza di molteplici comportamenti quali: aggressione, fuga
da casa, furti extradomestici, assenza da scuola, vandalismo, furto di auto, furto di biciclette, rapina,
arresto, uso di alcool, di marijuana, sniffo di colla ecc.
In base alla presenza di alcuni di questi comportamenti, è stato possibile definire quattro livelli di
delinquenza:
1. Assenza di delinquenza: (o piccola delinquenza in casa), ad esempio furto di ristrette somme di
denaro o vandalismi di piccola entità.
2. Piccola delinquenza fuori casa: piccoli furti (ad esempio nei negozi), vandalismo o piccole
frodi (ad esempio non pagare il biglietto dell’autobus).
3. Delinquenza poco grave: furto di oggetti di medio valore, risse, furto d’auto per fare un giro.
4. Delinquenza grave: violenza aggravata, violenza sessuale, spaccio, possesso di armi, e
omicidio.
I risultati hanno evidenziato come nel gruppo con soggetti di età inferiore (8 anni), il 44% non
mostrasse comportamenti delinquenti. A 12 anni un ragazzo su due presentò qualche
comportamento delinquenziale (di diversa gravità), mentre uno su dieci esibì un comportamento
delinquenziale grave.
I ragazzi di 13-14 anni, all’interno di questo campione, commisero, nel corso della vita, un furto nel
64% dei casi, violenza nel 35%, vandalismo nel 26,4%, frode nel 38,2%, e più di un comportamento
trasgressivo nel 48,5% dei casi.
La corrispondenza tra livello di gravità e tipo di comportamento trasgressivo risultò maggiore nei
soggetti più grandi, e assente all’interno del gruppo riguardante i soggetti più piccoli.
È importante notare come, all’interno di tale studio, la scala dei comportamenti antisociali in età
infantile si sia dimostrata predittiva dei comportamenti delinquenziali in età adolescenziale.
Gli studiosi si sono posti dunque un interrogativo: quali sono gli elementi che favoriscono
l’emergere del comportamento antisociale e delinquenziale? I ricercatori, al proposito, hanno
rilevato come la variabile più importante sia la mancanza di senso di colpa; in successione si
presentano inoltre problemi di iperattività, impulsività e deficit d’attenzione, ritardo scolastico e
basso rendimento a scuola.
Poiché la mancanza del senso di colpa si è rivelata così importante, è stato interessante per questi
autori comprendere a che cosa essa potesse essere ricondotta. Analisi statistiche effettuate sui dati a disposizione, hanno evidenziato come la mancanza del senso di colpa sia soprattutto connessa ad uno scarso controllo e ad una scarsa comunicazione in famiglia, dunque a problemi educativi.
Molti comportamenti sono correlati a questo fattore: marinare ed essere sospesi a scuola, bassa
motivazione allo studio, crudeltà, tendenza all’aggressività e problemi di disciplina a casa.
In definitiva, le relazioni familiari e gli stili educativi proposti dai genitori, sarebbero alla base della
mancanza dello sviluppo della capacità di sentirsi in colpa, condizione emotiva questa che comporta la mancanza di un freno importantissimo per la messa in atto di comportamenti aggressivi e trasgressivi.
Lo studio ha permesso di porre l’attenzione su un altro elemento molto importante, ovvero come le
variabili relative al bambino spieghino la maggior parte della varianza, e come risultino invece
meno importanti variabili relative ad esempio al quartiere di residenza o alle condizioni
socioeconomiche della famiglia. L’analisi dei dati mostra come la delinquenza minorile sia
soprattutto correlata a problemi di attenzione e iperattività, all’impulsività, alla mancanza di senso
di colpa, e a famiglie poco capaci di gestire la disciplina, con frequente utilizzo di punizione fisica e
presenza di scarso controllo.
Secondo Loeber (Loeber et al., 1998), tali risultati fanno emergere come la delinquenza giovanile
sia spiegabile soprattutto attraverso variabili individuali, laddove i fattori familiari contribuirebbero
solo indirettamente all’emergere della devianza.
Tale studio evidenzia dunque l’importanza della dimensione psicologica, individuale e relazionale,
sottostante lo sviluppo del comportamento antisociale. Loeber sottolinea, inoltre, l’importanza della
dimensione “evolutiva”; egli sostiene infatti come i problemi cambino con l’età (i comportamenti
antisociali triplicano nel passaggio dai 7 ai 12 anni); parimenti anche i fattori esplicativi variano con
la crescita (i problemi d’attenzione diminuiscono con l’età, mentre sembrano aumentare i problemi
della condotta e il disturbo oppositivo provocatorio).
Il comportamento antisociale sembra dunque dovuto principalmente alla mancanza di controlli
interni, quali la difficoltà a controllare gli impulsi, problemi d’attenzione e mancanza di senso di
colpa (Loeber et al., 1998).
Rutter (Rutter et al., 1998) in linea con quanto emerso da tale studio, propone quattro principali
fattori di rischio: una precoce età di insorgenza; iperattività; presenza di comportamenti violenti;
presenza di un grave disturbo di personalità di tipo psicopatico o psicotico.
Cerchiamo dunque di approfondire maggiormente il ruolo giocato da tali variabili.
Età di insorgenza
L’importanza del primo punto è stata già trattata nel paragrafo relativo agli adolescenti antisociali;
vorrei qui aggiungere brevemente alcune considerazioni, partendo dall’importante contributo
offerto dalla Moffitt (1993).
L’autrice ha introdotto due tipologie di offenders: “adolescence limited” (AL) e “life course
persistent offenders” (LCP).
I primi (AL) sono individui che mettono in atto manifestazioni delinquenziali a partire dal periodo
adolescenziale; si tratta della cosiddetta “delinquenza fisiologica”, ovvero quella delinquenza che è
parte del processo normativo di sviluppo.
I secondi, invece, presentano manifestazioni antisociali già dalla prima infanzia, le quali si
protrarranno fino all’età adulta; si tratta di soggetti con problemi di natura neuropsicologica, spesso
cresciuti in ambienti familiari e sociali problematici.
Questo secondo gruppo è coinvolto in un’elevata percentuale di reati denunciati, ed anche in una
significativa percentuale di ricadute criminali.
Tale tassonomia duale, risulta però restrittiva rispetto all’articolata realtà criminogenica. Ci si trova
infatti di fronte anche a criminali il cui percorso di crescita infantile è stato positivo e adattivo, e che
iniziano una carriera criminale solo in età adulta (Zara, 2006).
Come spiega Zara (Zara, 2006), a partire dal concetto di “differenza individuale” si possono
delineare almeno 8 percorsi antisociali, riferiti a differenti individui in differenti momenti del ciclo
di vita:
1. nd-nd-nd, ovvero un pattern non delinquenziale per tutto il corso di vita.
2. nd-d-nd, equivalente a delinquenza solo nel periodo adolescenziale, quindi a un pattern
esplorativo (adolescent onset).
3. nd-nd-d, cioè delinquenza che si presenta nella sola età adulta. In questo caso l’onset antisociale
è tardivo (late starters). Le prime manifestazioni antisociali si presentano solo nella prima età
adulta, con successiva evoluzione in una carriera criminale tardiva (late criminal career).
4. nd-d-d, ovvero delinquenza che si protrae dall’adolescenza fino all’età adulta. Nella
maggioranza dei casi si tratta di soggetti con strutturazione di un Sé delinquenziale che incide su
una concezione appresa di Sé come fallimentare (delinquent life style).
5. d-nd-nd, antisocialità limitata all’infanzia. C’è una precoce iniziazione in attività antisociali, ma
non vi è escalation, persistenza o cronicità del comportamento criminale (early onset recovered).
6. d-d-nd, antisocialità infantile e delinquenza adolescenziale. Questo percorso si riferisce ad una
condizione problematica che riguarda periodi critici dello sviluppo, la quale può regredire grazie
ad interventi mirati (juvenile multiproblematic pattern).
7. d-nd-d, antisocialità e delinquenza con un periodo di intervallo durante l’adolescenza. Riguarda
un pattern antisociale discontinuo in cui è difficile rilevare la strutturazione di un processo di
desistenza (discontinuous antisocial pattern).
8. d-d-d, ovvero delinquenza durante tutto il percorso di vita. Vi è una precoce iniziazione con
segni di stabilizzazione e successiva escalation in comportamenti criminali e violenti
nell’adolescenza e nell’ età adulta (early onset and chronicity). Si tratta di soggetti
multiproblematici, molte volte con disturbi mentali, che rientrano, in base alla tassonomia duale
della Moffitt, nel gruppo di offenders persistenti nel corso della vita.
Le prime due combinazioni rientrano nei percorsi “normativi”; le traiettorie che invece segnalano
situazioni problematiche sono quelle in cui il corso della vita è costituito da una continuità
antisociale che ha esordio nell’infanzia e che si protrae sino all’età adulta (d-d-d), o che continua a
persistere anche se a intermittenza (d-nd-d), in cui può anche non esservi un onset precoce (nd-d-d)
(Zara, 2006).
Iperattività e comportamento violento
Al fine di analizzare queste due variabili, vorrei riportare un interessante lavoro di Babinski e
collaboratori (1999), in cui si è cercato di valutare la relazione tra deficit d’attenzione e iperattività,
problemi della condotta nell’infanzia, e attività criminali in età adulta.
Nello specifico, tali autori, hanno seguito ed intervistato 230 maschi e 75 femmine a partire in
media dai 9 anni di età fino ai 26 anni. Precoci comportamenti infantili, valutati da genitori ed
insegnanti, sono stati esaminati nella loro implicazione con problemi della condotta, problemi di
iperattività-impulsività, problemi di deficit d’attenzione e dunque nella loro capacità di predire
futuri legami con la criminalità adulta, misurata attraverso gli arresti ufficiali e i self report.
I risultati sono stati suddivisi per sesso, e per le variabili “arresti ufficiali” e “reati autoriportati”.
Nel caso di arresti ufficiali in soggetti maschi, sono stati trovati significativi effetti dei problemi
della condotta e dell’iperattività-impulsività nel predire un arresto ufficiale.
Anche l’interazione tra problemi della condotta e dell’iperattività-impulsività è risultata
significativa. L’analisi relativa a questa categoria indica come i soggetti con una forte comorbidità
(definita come la presenza contemporanea di più disturbi) per problemi della condotta e
dell’iperattività-impulsività avessero il 57% di tasso d’arresti, molto più alto rispetto a coloro con
soli problemi della condotta (29%).
Per i reati di confusione pubblica, gli effetti principali sono stati determinati dalla presenza di
problemi della condotta, impulsività-iperattività, e la compresenza di questi due problemi.
Per i reati contro la proprietà le stesse tre variabili sono risultate predittori significativi di successivi
arresti.
Per la categoria dei reati contro la persona, solo i problemi della condotta risultarono
significativamente correlati ad un alto tasso d’arresti, sebbene gli effetti della disattenzione e
dell’interazione fra problemi della condotta e dell’iperattività impulsività si avvicinassero alla
significatività.
Quindi, per tutte e tre le categorie di reato (reati di confusione pubblica, reati contro la proprietà e
reati contro la persona), i precoci problemi della condotta risultarono significativamente correlati ad
un’ alta percentuale di arresti.
Per due delle tre categorie del crimine (confusione pubblica e reato contro la proprietà),
l’iperattività-impulsività e la contemporanea presenza di quest’ultimo disturbo con i problemi della
condotta si mostrarono significativi predittori di arresti.
Per la più grave categoria di attività criminale, il reato contro la persona, solo i problemi della
condotta risultarono significativamente correlati al successivo arresto, indicando come i criminali
più pericolosi siano quelli con precoci problemi della condotta, ma non con precoci problemi di
iperattività-impulsività.
Nel caso di arresti ufficiali nelle femmine, solo 6 delle 75 all’interno di questo studio (8%) hanno
presentato arresti ufficiali registrati. I risultati indicano come sembri esservi un trend significativo
per quanto riguarda alti livelli di problemi della condotta nel predire gli arresti ufficiali.
Il 50% di femmine con problemi della condotta, ma non con problemi di iperattività-impulsività
aveva subito un arresto così come il 33% di esse che presentava comorbidità di gravi problemi della
condotta e di iperattività-impulsività.
Relativamente a questa categoria, deve essere però usata molta cautela nell’interpretazione dei
risultati, a causa dell’esiguo numero di femmine con gravi problemi della condotta (N=5), e di
iperattività-impulsività (N= 9). Solo una delle tre con entrambi i disturbi presentava un arresto
ufficiale registrato.
Per quanto riguarda i self report effettuati da soggetti maschi, il 54% di essi ha riportato la
partecipazione a reati, sebbene solo il 23% di essi avesse un arresto ufficiale registrato.
Per tutti e tre i tipi di reato citati precedentemente, nessuno dei predittori è risultato statisticamente
significativo, nonostante la variabile iperattività-impulsività si avvicinasse alla significatività.
Nessuno dei predittori è stato significativo per i reati di disordine pubblico.
Per i reati contro la proprietà, l’iperattività-impulsività ha rappresentato un predittore significativo
di un incrementato tasso criminale.
In modo simile alle conclusioni per gli arresti ufficiali, i problemi della condotta sono risultati
significativi predittori per un alto tasso criminale relativamente ai reati contro la persona.
Per ciò che concerne i self report delle donne, delle 75 femmine analizzate, 19 (25%) hanno riferito
di avere commesso qualche tipo di reato. Un effetto significativo si è evidenziato per l’iperattivitàimpulsività:
si è visto infatti che questo fattore è in grado di predire reati autoriportati. Nessuna
delle variabili predittive è risultata significativa per alti livelli di crimine relativamente alle donne,
sebbene l’iperattività-impulsività si avvicinasse alla significatività.
Per fare il punto della situazione, dunque, possiamo affermare che i risultati di questo studio
suggeriscono come precoci sintomi di iperattività-impulsività, così come precoci sintomi di
problemi della condotta, separatamente, siano responsabili sia di arresti ufficiali che di un alto
livello di reati autoriportati per i soggetti maschi.
Inoltre, la presenza sia di iperattività-impulsività che di problemi della condotta, sembra riuscire a
predire successivi coinvolgimenti in partecipazioni criminali.
I sintomi di disattenzione, invece, non sembrano essere correlati alla futura attività criminale adulta.
A tale proposito, questo studio, sottolinea l’importanza di distinguere due claster di sintomi:
disattenzione versus iperattività-impulsività. Bambini ADHD (Disturbo da Deficit di
Attenzione/Iperattività), con sintomi predominanti di iperattività-impulsività senza contemporanei
problemi della condotta, sembrano ad alto rischio per un esito antisociale. Per contro soli problemi
di attenzione nell’infanzia non sembrano portare ad una successiva attività criminale.
Lo studio poi suggerisce come individui con una storia di soli problemi della condotta possano
essere ad un più alto rischio per crimini più gravi, quali i reati contro la persona, che includono
aggressioni e furto. Soggetti con sola iperattività-impulsività sembrano invece essere ad un più alto
rischio per crimini meno gravi, quali disordine pubblico o reati contro la proprietà, correlati alle
caratteristiche di impulsività e difficoltà a ritardare la gratificazione che questi stessi soggetti
presentano.
Per le femmine i risultati sono un pò meno chiari, probabilmente a causa del ristretto numero di
donne che hanno commesso reati. In ogni caso, anche per esse, i precoci problemi della condotta
sembrano incrementare il rischio di arresti ufficiali, mentre l’iperattività-impulsività risulta
predittiva di reati autoriportati.
Huesmann e collaboratori (1984), a tale proposito, hanno trovato come soggetti maschi che da
ragazzi erano stati valutati come aggressivi evidenziassero successivamente un’alta probabilità di
commettere gravi crimini; per contro, questo non accadeva nelle donne aggressive da ragazze
caratterizzate, invece, dalla propensione a dare punizioni severe ai loro bambini. Probabilmente,
affermano gli autori, nelle femmine, l’impatto negativo di precoci problemi della condotta e di
iperattività-impulsività si manifesta in un’area differente da quella relativa alla partecipazione
criminale. I risultati sono confermati anche da un altro studio effettuato da Stacey e colleghi (Stacey
et al. 2001).
Tali autori hanno valutato l’impatto di differenti fattori di rischio sullo sviluppo di un futuro
disturbo antisociale di personalità. Essi hanno sottolineato come una disfunzione nel controllo degli
impulsi e la presenza di iperattività e disattenzione siano fattori altamente predisponenti per la
presentazione di futuri comportamenti antisociali.
A questo proposito, si è visto come i bambini ADHD abbiano difficoltà ad analizzare e ad
anticipare le conseguenze e ad apprendere dai passati comportamenti. La componente di iperattività
di tale disturbo sembra avere un ruolo centrale per lo sviluppo di un successivo disturbo della
condotta (CD), o di un disturbo antisociale di personalità (APD). Anche in questo caso si è
osservato come bambini che presentano il disturbo da deficit d’attenzione senza l’iperattività
abbiano minore probabilità di presentare un disturbo della condotta (CD) o un disturbo oppositivo
provocatorio (ODD).
Inoltre, gli autori fanno notare come i bambini con ADHD che presentano comorbidità con il
disturbo della condotta presentino un’alta probabilità di mantenere le loro tendenze antisociali
nell’età adulta rispetto agli altri bambini con solo disturbo della condotta.
Per concludere, è interessante riportare i risultati di uno studio effettuato da Huesmann e
collaboratori (2002), relativamente al ruolo dell’aggressività quale fattore di rischio.
Tali autori hanno trovato come la presenza di un certo livello di aggressività all’età di otto anni sia
il più forte predittore di eventi criminali nei successivi 22 anni. Una chiara implicazione è che il
rischio di sviluppo di attività criminali sia fortemente influenzato da ciò che accade ai bambini
prima che essi abbiano otto anni. L’aggressività presente a otto anni, secondo gli autori, predice in
modo nettamente migliore di qualsiasi altro fattore infantile la criminalità adulta.
Queste conclusioni hanno un’importante implicazione teorica ed applicativa. Infatti sia gli studi
longitudinali sullo sviluppo dell’aggressività che gli interventi preventivi dell’aggressività e del
comportamento antisociale dovranno focalizzare la loro attenzione sui precocissimi anni della vita
infantile.
Non solo, si sottolinea l’importanza di programmi di intervento multilivello che incidano su più
elementi: abilità genitoriali, interazioni familiari, precoci problemi comportamentali del bambino,
interventi all’interno delle classi scolastiche, ecc.
Disturbi di personalità
Passate ricerche sulla delinquenza giovanile (Gluek e Gluek, 1950) hanno mostrato come essa
presenti alcune associazioni con un certo numero di caratteristiche psicopatologiche.
Successivi studi hanno dato conferma a tale affermazione, trovando come la maggioranza dei
delinquenti adolescenti esibisca un disturbo mentale, e come la comorbidità si presenti in più della
metà dei giovani delinquenti (Haapasalo & Hamalainen, 1996; Pliszka, Sherman, Barrow, & Irick,
2000; Vermeiren, De Clippele, & Deboutte, 2000).
I giovani delinquenti con disturbo della condotta, secondo gli autori, mostrano di avere, ad esempio,
un’alta comorbidità per patologie internalizzanti. La stretta connessione tra patologia psichiatrica e
delinquenza è inoltre enfatizzata dal fatto che molti delinquenti sono stati sottoposti a precedente
ricovero per trattamento psichiatrico (Vermeiren, 2003).
A tale proposito, studi su adolescenti psichiatrici ricoverati (Kjelsberg, 1999), hanno dimostrato
un’incrementata prevalenza di comportamenti delinquenti se paragonati ai “controlli” privi di
patologie.
Quando i ricoveri in età adolescenziale proseguono anche nell’età adulta, il coinvolgimento in
attività criminali si presenta nella metà dei soggetti.
Così come il personale di giustizia minorile si imbatte in problemi di salute mentale, gli operatori
psichiatrici affrontano più volte la delinquenza tra i loro pazienti; questo è molto importante, poiché
giustifica la ricerca sulle caratteristiche di salute mentale negli adolescenti.
Tuttavia, la letteratura ha anche dimostrato come la maggioranza dei giovani antisociali non
presenti un disturbo psichiatrico, e, viceversa, come molti adolescenti psichiatrici non sviluppino
uno stile di vita criminale.
Questo ci porta ad affermare come la comprensione dei fattori protettivi sia tanto importante quanto
quella dei fattori di rischio, al fine di programmare e sviluppare programmi di intervento adeguati
ed individualizzati (Vermeiren, 2003).
Entrando maggiormente nel dettaglio, da un punto di vista psicologico, tra gli adolescenti
trasgressivi vi è un sottogruppo che presenta comportamenti antisociali più gravi e più frequenti.
All’interno di tale sottogruppo, è possibile individuare due realtà distinte (Maggiolini, 2002): la
prima riguarda quegli adolescenti antisociali che si presentano soprattutto come impulsivi, poco
violenti, con problemi narcisistici, ma comunque capaci di creare una qualche forma di legame
significativo; tali soggetti utilizzano l’aggressività soprattutto in modo reattivo.
La seconda realtà invece, è rappresentata da adolescenti che si distinguono per la loro insensibilità;
essi non sono necessariamente impulsivi, ed utilizzano l’aggressività soprattutto in forma
predatoria, sadica, come attacco piuttosto che come difesa. Tali soggetti sono privi del senso di
colpa e della capacità di creare legami.
Il primo gruppo, dunque, rimanda al disturbo narcisistico di personalità (con presenza e
manifestazione di grandiosità, fantasie di successo, senso di essere speciali, sfruttamento, mancanza
di empatia), e/o alla personalità borderline, soprattutto nelle femmine.
Il secondo gruppo è invece maggiormente correlato alla personalità schizoide, con manifestazione
di indifferenza, assenza di amici stretti, distacco emotivo, spesso legata al disturbo paranoideo di
personalità, e vicina al nucleo psicopatico così come presentato da Hare (descritto successivamente)
(Maggiolini, 2002).
Il legame tra presenza di psicopatologia e commissione di reati riguarda soprattutto i crimini
violenti ed in particolare i reati commessi da donne. Infatti, se, tra coloro che delinquono, i disturbi
dell’umore sono presenti a livelli simili a quelli della popolazione generale, alcuni disturbi quali il
delirio di minaccia della schizofrenia paranoide o del disturbo delirante (costituito dall’idea che
qualcuno possa e stia controllando i propri pensieri), sono strettamente correlati alla commissione di comportamenti violenti.
Tra gli uomini che hanno commesso un omicidio, la frequenza con cui è presente la schizofrenia è
6.5 volte maggiore rispetto a quella presente nella popolazione generale, e nelle donne 15 volte più
della media.
L’omicidio è anche spesso correlato a disturbi narcisistici o a reazioni di panico, mentre il tentato
omicidio risulta frequentemente associato ad un disturbo paranoideo di personalità (Maggiolini,
2002).
La ricerca ha fatto inoltre emergere altre correlazioni per reati differenti dall’omicidio.
La rapina e il furto, ad esempio, sembrano connessi al disturbo antisociale; lo stupro, da vedersi
come un tentativo di esercitare potere, è più frequentemente espressione di una personalità sadica;
l’incendio di una personalità borderline; i rapimenti sembrerebbero realizzati maggiormente da
personalità schizoidi; i danneggiamenti, da soggetti con disturbo ossessivo compulsivo di
personalità; gli attacchi di rabbia, da persone con disturbi narcistici (Skodol, 1998).
Per i reati più gravi commessi da soggetti di minore età, come ad esempio l’omicidio, ci si trova
spesso in situazioni di psicopatologia in cui la variabile adolescenziale assume un ruolo centrale
(Maggiolini, 2002).
Nella maggior parte dei casi in cui si sono realizzati gravi delitti, infatti, più che di fronte ad una
schizofrenia, ci si trova di fronte a situazioni di follia che però non necessariamente rappresentano
un conclamato disturbo psicotico. A tale proposito, è necessario sottolineare come il senso di realtà
degli adolescenti, spesso sia limitato alle relazioni con i pari, che ne costituiscono i parametri.
All’interno di un piccolo gruppo può emergere e consolidarsi una verità affettiva, molto simile alla
fantasia inconscia, che per il solo fatto di essere condivisa da tutti i membri assume un significato di
realtà concreta. Tale meccanismo di “follia condivisa” può risultare particolarmente potente in
adolescenza, tanto che di fronte ad un gruppo può essere difficile discriminare il contributo dei
differenti soggetti alla visione della realtà che ha condotto alla commissione del reato; un soggetto
può partecipare ad una visione delirante senza però produrla, in quanto contagiato.
Tra gli adolescenti trasgressivi, quelli che commettono reati in modo ripetuto presentano un vero e
proprio stile di vita antisociale, e possono essere classificati all’interno del “disturbo antisociale di
personalità”. Si tratta di una categoria diagnostica che, in teoria, secondo il Dsm - IV, può essere
applicata solo ai maggiorenni; tale precauzione tiene conto della forte variabilità del comportamento
adolescenziale di cui abbiamo parlato precedentemente (Maggiolini, 2002).
Vediamo dunque i criteri di classificazione di tale disturbo che, se presente, indica il passaggio ad
una criminalità adulta.
IL COMPORTAMENTO ANTISOCIALE COME PSICOPATOLOGIA:
IL DISTURBO ANTISOCIALE DI PERSONALITÀ
I pazienti antisociali sono forse quelli studiati più approfonditamente tra gli individui che
manifestano disturbi di personalità, ma sono anche quelli che i clinici tendono ad evitare
maggiormente.
Nella situazione terapeutica, tali soggetti, possono mentire, ingannare, rubare, minacciare, e mettere
in atto qualsiasi altro tipo di comportamento irresponsabile.
Sono stati descritti come psicopatici, sociopatici, affetti da disturbi del carattere, termini questi
tradizionalmente associati all’incurabilità. Qualcuno potrebbe anche sostenere che tali soggetti
dovrebbero essere considerati unicamente come criminali e dunque non essere inclusi nell’ambito
della psichiatria.
L’esperienza clinica, però, sottolinea come l’etichetta “antisociale” sia applicabile ad un ampia
varietà di individui, da quelli totalmente incurabili a quelli che sono curabili in determinate
condizioni (Gabbard, 2002).
Il Dsm - IV presenta il disturbo antisociale di personalità come caratterizzato da inosservanza e da
violazione dei diritti degli altri, che si manifesta fin dall’età di 15 anni, e continua nell’età adulta.
I soggetti appartenenti a questa categoria presentano una marcata difficoltà a conformarsi alle
norme sociali attraverso la messa in atto di un comportamento legale; essi compiono atti suscettibili
di arresto quali distruggere le proprietà, molestare gli altri, rubare o svolgere attività illegali. Non
sono capaci di rispettare i sentimenti e i diritti altrui; sono disonesti e manipolatori per ottenere
vantaggi personali; hanno la tendenza a mentire, ad utilizzare false identità, truffare e simulare;
l’impulsività che caratterizza tali soggetti li rende spesso incapaci di pianificare il futuro.
Caratterizzati da irritabilità e aggressività, possono trovarsi coinvolti in scontri fisici o realizzare
essi stessi delle aggressioni fisiche, non curandosi della propria e altrui sicurezza e presentando
scarso rimorso per le conseguenze delle proprie azioni.
Perché si possa fare diagnosi di questo disturbo è necessario che siano compiuti i 18 anni, e che
siano presenti in anamnesi alcuni sintomi del disturbo della condotta prima dei 15 anni (Maggiolini,
2002).
Tale definizione è stata però contestata. Hare (1993), a tale proposito, sottolinea come non vadano
confuse sociopatia o disturbo antisociale di personalità, e psicopatia. Mentre infatti la sociopatia
riguarda una serie di situazioni quali le deviazioni sessuali, l’alcolismo, e comportamenti asociali o
antisociali, non necessariamente delinquenziali, la psicopatia riguarda invece sia tratti di personalità
che comportamentali, e riguarda i delinquenti che hanno maggiore probabilità di recidiva e di
commettere reati di maggiore gravità. Hare, ha individuato due fattori stabili di personalità che
caratterizzano gli psicopatici.
Il primo di essi riguarda il narcisismo aggressivo, caratterizzato da egocentrismo, insensibilità,
mancanza di rimorso. Il secondo fattore, invece, rimanda allo stile di vita antisociale caratterizzato
da vita irresponsabile, non convenzionale, antisociale, impulsiva e ricerca di situazioni eccitanti.
Tale fattore risulta particolarmente relazionato al comportamento criminale, correlato ad un basso
QI, basso livello socioeconomico, e basso livello di istruzione.
Sempre secondo Hare, gli psicopatici non riescono a differenziare le trasgressioni di regole dalle
trasgressioni che comportano la sofferenza altrui, a causa della mancanza del senso di colpa.
La freddezza e il distacco emotivo che li caratterizza non li conduce necessariamente al crimine, ma
se un soggetto psicopatico realizza un reato, il suo comportamento sarà caratterizzato da efferatezza
e mancanza di empatia.
Tale modello esplicativo mostra come la maggioranza degli psicopatici sia antisociale, ma come
non sia possibile affermare il contrario. Questo è significativo, poiché significa che non tutti gli
antisociali, e di conseguenza non tutti gli adolescenti che commettono reati, siano caratterizzati
dalla tipologia di personalità sopra descritta (quella psicopatica); è importante mettere in evidenza
questa distinzione poiché un alto livello di psicopatia risulta correlato non solo ad un maggior
numero di reati e ad una loro maggiore gravità, ma anche ad una maggiore difficoltà di trattamento.
A tale proposito, Forth e Mailloux (2000) hanno rilevato come mentre la maggior parte degli
adolescenti in carcere segua il criterio per il disturbo della condotta o antisociale, solo tre su dieci
presentino i criteri per la psicopatia. Tra i fattori familiari che risultano determinanti per lo sviluppo
della psicopatia ritroviamo elementi quali: trascuratezza, abuso fisico, sessuale o affettivo durante
l’infanzia, disaccordi in famiglia, genitori a loro volta antisociali o alcolisti. L’ambiente familiare
risulta caratterizzato da mancanza di controllo, disciplina incoerente, e precoce separazione dalle
figure genitoriali.
In definitiva, emerge come gli adolescenti che commettono ripetutamente reati, nonché più gravi,
siano caratterizzati soprattutto dalla mancanza dei freni responsabili dell’inibizione del
comportamento aggressivo, quali: la considerazione dei sentimenti altrui, il controllo degli impulsi e
la creazione di legami affettivi significativi. La mancanza di senso di colpa e la freddezza
caratterizzano il nucleo più grave dei delinquenti, vale a dire quello psicopatico, mentre
l’impulsività caratterizza maggiormente i soggetti antisociali.
CONCLUSIONI
Abbiamo iniziato questo lavoro mostrando come il comportamento antisociale da giovani
rappresenti un fenomeno normativo.
Abbiamo anche detto però, come ridurre la delinquenza giovanile unicamente ad una problematica
di natura adolescenziale (ovvero come a qualcosa di fisiologico) conduca ad una visione distorta e
riduttiva del problema.
Ecco perché abbiamo cercato in primo luogo di comprendere cosa si intenda con il termine
“adolescenti antisociali”, evidenziando come si tratti di ragazzi che manifestano frequenti e gravi
comportamenti trasgressivi, laddove tale comportamento è indicativo di una più ampia difficoltà di
inserimento sociale e di sviluppo di una identità adulta (Maggiolini, 2002).
All’interno di tale concezione è stato importante comprendere come siano classificati i problemi
trasgressivi dei bambini frequentemente correlati al comportamento antisociale adolescenziale, e
quali specifici fattori di rischio siano implicati nel processo che conduce la precoce tendenza al
comportamento trasgressivo e all’antisocialità a trasformarsi in un vero e proprio disturbo
antisociale.
Questo ci ha portato a vedere come tra gli adolescenti trasgressivi, quelli che commettono reati in
modo ripetuto presentino un vero e proprio stile di vita antisociale, e possano essere classificati
all’interno del “disturbo antisociale di personalità” (Maggiolini, 2002).
Nello specifico, un’attenta analisi della letteratura ci ha permesso di concludere come “l’età” e il
“genere” rappresentino le variabili maggiormente correlate alla commissione di reati, dato questo
che sottolinea l’importanza della dimensione evolutiva e del processo di acquisizione dell’identità
alla base del comportamento antisociale.
Non tutta la delinquenza giovanile può essere ricondotta alla psicopatologia, in quanto espressione
della tendenza a trasgredire (normativa e fisiologica) degli adolescenti, ma le variabili psicologiche
e soggettive assumono comunque un ruolo centrale nello spiegare perché alcuni adolescenti
commettano reati più gravi o tendano a perseverare nella realizzazione di comportamenti
delinquenziali.
Tale prospettiva conduce a sottolineare l’importanza di un punto di vista psicopatologico e
psicologico evolutivo nella spiegazione della delinquenza minorile (Maggiolini, 2002).
Ma non tutte le spiegazioni del comportamento antisociale in età minorile sono concordi con quanto
appena affermato.
Secondo Emler e Reicher (1995), ad esempio, la devianza rappresenterebbe l’espressione di un
particolare rapporto dei giovani con l’autorità. I comportamenti delinquenti sarebbero dunque da
interpretare come espressione del rifiuto da parte dell’adolescente di accogliere le richieste della
legge di definire quello che deve essere il suo Sé, o le relazioni che deve intraprendere con gli altri.
La devianza è da comprendere, allora, a partire dal riconoscimento del fatto che gli adolescenti
desiderano un sistema alternativo, ovvero più informale, di regolazione sociale.
All’interno di tale ottica, Emler e Reicher spiegano la devianza attraverso la “teoria della
reputazione sociale”, mettendo in evidenza l’importanza dell’interazione di gruppo nella definizione
dell’identità.
La devianza non costituirebbe allora l’espressione di caratteristiche immutabili dell’individuo, ma
rappresenterebbe invece l’espressione del tentativo da parte degli adolescenti di rivendicare uno
spazio nel mondo sociale.
Si tratta di un approccio sociale che si contrappone profondamente alle interpretazioni di natura
psicopatologica, e che porta a non credere all’importanza di quei programmi di intervento fondati
sull’idea del deficit, quali quelli che si propongono di favorire lo sviluppo del livello del
ragionamento morale, di abilità sociali o di capacità riflessive. Sulla base di questo approccio
emerge invece l’importanza di sostenere programmi che migliorino le condizioni di vita degli
adolescenti come, ad esempio, evitare che i giovani passino il tempo libero per strada.
Un’altra teoria che si è occupata di comprendere il significato e le dinamiche sottostanti alla
devianza minorile è quella del “deficit sociocognitivo” di Dodge (Dodge, Lochmann, Laird, 2001).
Essa parte dall’idea che i bambini con comportamenti dirompenti e, successivamente, gli
adolescenti antisociali, avrebbero principalmente una difficoltà a decodificare il comportamento
altrui, con la tendenza ad attribuire agli altri intenzioni ostili, e con una bassa capacità ad affrontare
i conflitti, spesso risolti attraverso soluzioni aggressive.
Nella prospettiva di Dodge si distinguono due differenti fonti di influenza del comportamento:
l’organizzazione delle proprie conoscenze e l’elaborazione delle informazioni sociali nel fare fronte
ad una particolare condizione. Gli effetti delle conoscenze opererebbero cioè attraverso la
mediazione dei meccanismi di elaborazione dei segnali sociali, che a loro volta agiscono come
cause del comportamento aggressivo.
Fonagy (Fonagy, Target, 2001) fornisce un’ulteriore interpretazione; secondo l’autore infatti, tali
deficit (difficoltà a decodificare il comportamento altrui, scarsa capacità ad affrontare i conflitti,
ecc.) sarebbero l’espressione di problemi di attaccamento.
Alla base dei comportamenti delinquenti vi sarebbe una significativa carenza di mentalizzazione,
intendendo, con tale termine, la capacità di interpretare i propri e gli altrui comportamenti in termini
di stati mentali; essa è ciò che permette al soggetto di rispondere non solo al comportamento degli
altri, ma anche alla concezione dei loro sentimenti, credenze, speranze, aspettative e progetti.
I caregivers dei bambini con attaccamento disorganizzato (ovvero coloro che hanno frequentemente
scarsa capacità di mentalizzazione) spesso rispondono al disagio del bambino stesso con ostilità. Il
comportamento aggressivo ed ostile del bambino ha, allora, la funzione di proteggere il Sé, che non
si sente capace di controllare in modo attivo la relazione con gli altri.
Si tratta di bambini privi del senso di autoefficacia, per cui è facile e frequente che non si sentano
responsabili delle loro azioni e delle loro conseguenze.
Fonagy sottolinea come vi sia una notevole somiglianza nelle descrizione dei genitori di bambini
con attaccamento disorganizzato e di bambini con disturbo della condotta; si tratta infatti di genitori
poco capaci di interpretare in modo corretto il comportamento dei loro bambini e che si sentono
spesso impotenti nello svolgere adeguatamente il loro ruolo genitoriale. Spesso questi genitori hanno
un atteggiamento autoritario che, proprio a causa della scarsa capacità a comprendere i segnali del bambino e ad attribuire loro un significato, ritardano in lui lo sviluppo della capacità di
mentalizzazione.
È dimostrato, a tale proposito, come l’incapacità di gestire la disobbedienza nell’età prescolare
rappresenti il punto di partenza di una disciplina coercitiva, che rinforzerà e protrarrà nel futuro il
comportamento aggressivo del bambino e dell’adulto (il genitore) che diventerà un modello
identificatorio per il bambino stesso (Fonagy, target, 2001).
Nella prospettiva psicopatologia evolutiva, quella prevalentemente presa in considerazione
all’interno di questa discussione, i reati minorili possono essere considerati come espressione sia
della tendenza trasgressiva degli adolescenti, sia di disturbi del comportamento e della personalità
antisociale, sia di una più grave psicopatologia (Maggiolini, 2002).
In definitiva, nonostante le peculiarità di ciascuna prospettiva, in ognuna di esse i reati possono
essere visti come manifestazioni differenti della difficoltà dell’adolescente a costruirsi un’identità
sociale, da intendersi come costruzione di un ideale dell’io, di un’idea del sé e del proprio valore in
quanto maschio o femmina.
Tale percorso è caratterizzato dall’assunzione di responsabilità relativamente al proprio
comportamento; una distorsione nello sviluppo della capacità di controllo del comportamento e del
senso di colpa, o anche un’elevata e distorta percezione dell’ostilità altrui, possono minare
fortemente tale processo.
All’interno di tale concezione dunque, è fondamentale sottolineare come “l’idea di sé”, e il percorso
che conduce allo sviluppo di tale idea, rappresentino un elemento centrale per lo sviluppo di una
adeguata capacità di controllo degli impulsi, per lo sviluppo di capacità cognitive di tipo riflessivo,
nonché importanti e centrali elementi su cui lavorare in termini preventivi e riparatori (Maggiolini,
2002).
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